Namkhai Norbu : biografia
Nato a Derghe, in Tibet orientale nel 1938,(n1938 d2018) Chögyal Namkhai Norbu fu riconosciuto alla sua nascita come reincarnazione di un celebre maestro della tradizione Dzogchen. Nonostante la giovane età, verso la fine degli anni cinquanta era già noto come profondo conoscitore della cultura tibetana di Dzogchen e grande maestro spirituale. La sua fama in India e in Tibet ebbe una tale risonanza che nel 1960 il prof. Giuseppe Tucci, eminente studioso e fondatore dell’Is.M.E.O, uno dei maggiori istituti di studi orientalistici italiani (oggi Is.I.A.O, Istituto per l’Africa e l’Oriente), lo invitò a Roma per collaborare alle sue ricerche. Fu così che Chögyal Namkhai Norbu si trasferì in Italia dove incominciò a contribuire attivamente alla nascita degli studi tibetani in occidente.
Nel 1963 fu chiamato ad insegnare Lingua e Letteratura Tibetana presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, dove ha lavorato fino al 1992, concentrandosi principalmente sullo studio della storia antica del Tibet. I suoi lavori denotano una profonda conoscenza della civiltà tibetana e sono rivolti principalmente ai giovani del Tibet perché non muoia in essi la coscienza dell’antico patrimonio culturale del loro paese. Per questi giovani, sia quelli che vivono nella regione autonoma della Repubblica popolare cinese, sia quelli costretti alla diaspora, le pubblicazioni di Chögyal Namkhai Norbu rappresentano un importante punto di riferimento per la continuazione dell’eredità culturale del Tibet e la sua identità nazionale. I suoi studi, poi, hanno avuto un risalto internazionale che lo hanno portato a svolgere un’intensa attività di divulgazione, attraverso conferenze e seminari, tenuti nei maggiori centri di ricerca orientalistica e università del mondo.
A partire dalla metà degli anni ’70 Chögyal Namkhai Norbu incominciò ad insegnare Yoga e meditazione Dzogchen ad alcuni allievi italiani e il crescente interesse suscitato dai suoi insegnamenti lo convinse a impegnarsi sempre più in questa attività. Insieme ad alcuni discepoli fondò la prima Comunità Dzogchen in Italia ad Arcidosso in Toscana e poi con il tempo fondò altri centri in diverse parti d’Europa, della Russia, degli Stati Uniti, del Sud America e dell’Australia.
BIBLIOGRAFIA ITALIANA: Corso video di yoga tibetano. DVD, Red Edizioni, 2005 BIBLIOGRAFIA INGLESE: Primordial Experience: An Introduction to Rdzogs-Chen Meditation, Shambhala, 2001
D. Lei è arrivato in Italia negli anni 60, insegnando subito scrittura e letteratura tibetana. Come è cambiato l’interesse per la cultura tibetana in Italia? R. A me sembra molto cambiato. Io sono un tibetano e mi sono sempre interessato e occupato con tutta la mia energia per proteggere la cultura tibetana. Ma nei miei primi anni all’Università, tutte le cose più ufficiali sulla cultura tibetana, storia del Tibet ecc, tutti seguivano principalmente i primi professori occidentali che avevano avuto il contatto con il Tibet, ma loro non avevano fatto ricerche profonde sulla nascita e le fonti della cultura tibetana. In generale questi studiosi sostenevano che la cultura tibetana si è sviluppata attraverso la cultura indiana e quella cinese, ma questa teoria non mi convinceva. E allora mi sono dedicato per molto tempo a una ricerca più vasta, per vedere a quali anni poteva risalire la storia del Tibet. In un primo tempo, quando presentavo i miei risultati, molti professori occidentali non erano soddisfatti, perché dicevano che non rispettavo le tradizioni. I risultati della mia ricerca dimostravano che nel Tibet occidentale c’era un regno molto antico che si chiamava Shang Shung. A quell’epoca nessuno ne sapeva niente. A molti sembrava che io stessi inventando, poi col passare degli anni si sono trovati molti documenti che testimoniavano una scrittura antica. Anche gli stessi ricercatori cinesi hanno trovato questa scrittura sulle rocce, e hanno confermato che questa scrittura esisteva. Oggi tutti gli studiosi parlano molto del regno Shang Shung, le ricerche continuano. Questo è stato un cambiamento molto importante. D. Perché il Tibet secondo lei oggi richiama tanto interesse e tanta attenzione nel mondo, non solo per chi studia la cultura orientale? R. Il Tibet è rimasto abbastanza isolato per secoli e secoli e pochi ne conoscono la storia. I cinesi la presentano come storia di una parte della Cina, per poter dimostrare che è una regione cinese. Per questo il Tibet è presentato come Shangrilà, come una pura fantasia. Piano piano oggi la gente va a visitare e studia il Tibet, in occidente sono arrivati molti studiosi e maestri tibetani e questo ha aiutato a scoprire che c’è una cultura caratteristica. D. Lei nella sua vita ha sempre scritto molto e su molti argomenti: racconti, poesie, insegnamenti, studi antropologici. Che cosa rappresenta per lei la scrittura e quale piacere trova nello scrivere? Ho cominciato a scrivere molto quando lavoravo all’università: in quel periodo ero molto impegnato sulla cultura tibetana e scrivevo non solo molti racconti o miti tibetani, ma lavori di ricerca. Ho scritto tre libri per stabilire il mio modo di vedere la storia e la cultura tibetana, ho diviso la storia in tre periodi, a ciascuno ho dedicato un volume. Questo è uno delle mie opere maggiori. Il resto dipende dalle circostanze. Qualche volta scrivo perché c’è un motivo preciso, qualche volta perché sento di scrivere, qualche volta scrivo anche per divertirmi, qualche volta, e questo vale per gli insegnamenti, quando sento di comprendere veramente qualcosa di molto utile per le persone. D. Lei ha un’esperienza straordinaria, quella di chi a cinque anni viene riconosciuto come reincarnazione di maestri buddisti e viene educato come maestro. Alla luce della sua vita quali sono i vantaggi e gli svantaggi di questo riconoscimento? Poiché sono tibetano e sono cresciuto in Tibet per me i riconoscimenti di reincarnazione erano una cosa familiare: quando ero piccolo vedevo già molte personalità legate alla reincarnazione. Per questo quando mi hanno riconosciuto sentivo di essere diventato importante, non vedevo nulla di negativo: mi divertivo, tutti mi rispettavano e mi mettevano nel posto più elevato. E anch’io facevo del mio meglio. Quando ero in monastero , l’insegnante non mi lasciava mai uno spazio libero, dovevo solo studiare e memorizzare e ogni tanto mi stufavo: non tanto dello studio, ma soprattutto perché in monastero c’erano molti altri ragazzi, con cui facevamo anche uno studio collettivo. Loro nel fare gli esami non riuscivano, soprattutto perché quando tornavano a casa, i genitori li mandavano a curare gli animali. La loro condizione era molto diversa dalla mia, si trovavano male, gli insegnanti li rimproveravano, e io mi sentivo triste e come soffocato. Quando poi sono entrato nel collegio, è cambiato tutto, c’erano insegnanti molto seri, non si studiava per memorizzare, ma si studiava filosofia buddista e mi piaceva, ogni tanto incontravo delle difficoltà, ma non trovavo svantaggi. D. Oltre ad aver scritto un libro sullo yoga del sogno, i sogni fanno parte integrante della sua scrittura. Come mai? R. Abbiamo tanti tipi di sogni, la maggior parte dei sogni vengono dalla nostra tensione: se abbiamo avuto qualche tensione nella giornata o nella vita, i sogni ne risentono. In particolare se abbiamo avuto qualche tensione molto forte quando eravamo piccoli, ne resta la traccia nei sogni, che si ripetono sempre. I sogni sono anche legati alla condizione della chiarezza, soprattutto per le persone praticanti. In loro, se sviluppano la chiarezza, i sogni cambiano: diminuiscono i sogni che derivano dalla tensione e si sviluppano quelli della chiarezza. Questi possono essere più legati alla condizione presente e al futuro: se si ha qualche progetto, ad esempio, è facile che si manifestino questo tipo di sogni. E per i praticanti in modo particolare diventano molto importanti, perché informano su come si deve sviluppare la nostra pratica, e nello stesso tempo manifestano la condizione fisica e l’energia dell’individuo. Per questo i medici tibetani per esaminare la malattia esaminano i sogni. D. Tanto che sulla base dell’esperienza di alcuni sogni ha creato alcune danze che oggi vengono praticate nei centri di meditazione. R. Sì, quando ero negli Usa, durante un ritiro ho visto in sogno un gruppo di persone che stavano danzando. Mi sono avvicinato e c’era una giovane donna che insegnava i passi della danza e spiegava come questa danza si collegasse a quello che io faccio nella mia pratica. E questo non è successo una volta sola, ma questa situazione si è ripetuta molte volte: così attraverso molti sogni ho imparato tutta la successione dei passi. Inoltre questa danza si svolge su un mandala, e anche questo l’ho memorizzato dal sogno e l’ho ricostruito da solo nella realtà, per imparare questa danza e poi per insegnarla. D. Lei dice che l’insegnamento deve rendere l’individuo più indipendente. Vuol dire che è forte il rischio di dipendenza dal maestro o dalla scrittura? Noi in generale viviamo nel dualismo e quindi siamo condizionati da tutto, con le nostre emozioni, i nostri problemi. Quindi dobbiamo cercare di non essere dipendenti da tutto questo: ma questo non significa non essere rispettosi o essere ribelli. Significa essere consapevoli di quali sono le circostanze e la situazione. Se si è consapevoli non si è dipendenti da niente. Ad esempio prendiamo la condizione sociale: seguire le leggi e le regole del paese vuol dire essere consapevole. Essere indipendenti significa fare le cose volentieri con consapevolezza. D. Sempre su questo tema lei scrive che bisogna saper realmente voler uscire dalle gabbie. Non è di nessun vantaggio rendere le propria gabbia più grande e più bella aggiungendovi alcune affascinanti gabbie fatte di “esotico” insegnamento tibetano. R. Sì, è proprio così. Prima di tutto uno deve scoprire che sta nella gabbia, con i nostri limiti, le nostre emozioni, che non si possono lasciare facilmente perché siamo nati, cresciuti e vissuti in questo modo. Se uno comprende, vede che questo non corrisponde nella nostra condizione. Per esempio: se un uccellino sta in una gabbia, questo non corrisponde alla sua condizione, perché l’uccellino ha due ali per volare, mentre in una gabbia non c’è tanto spazio per volare. Per volare c’è lo spazio. E’ importante comprendere che questo non corrisponde alla sua condizione. Allora cosa deve fare? Deve uscire subito dalla gabbia? Se un uccellino esce dalla gabbia, non sa difendersi e dopo pochi minuti qualcuno lo ammazza e lo mangia. La stessa cosa è per noi, non si può uscire subito dalla gabbia perché siamo abituati così. Ciascuno deve prima essere consapevole e, lavorando su noi stessi, possiamo raggiungere un livello che corrisponde davvero alla nostra condizione. D. Sempre per renderci conto della nostra condizione lei usa con molta frequenza l’immagine dello specchio. Perché? R. Perché quando noi guardiamo nello specchio, lo specchio manifesta il nostro riflesso. Noi sappiamo benissimo che il riflesso è una cosa irreale e che questa conoscenza è una cosa intellettuale. Ma è la verità? Sappiamo che questo riflesso è irreale, ma quello che riflette noi lo consideriamo sempre reale. Ciò che riflette e ciò che è riflesso sono interdipendenti, quindi, anche se lo riconosciamo, questo genere di conoscenza non è sufficiente, non ha molto valore. Il valore è comprendere che si può vedere lo specchio in un altro modo. Lo specchio, per esempio, ha la capacità di manifestare tutti i tipi, tutti i generi di riflesso. Allora lo specchio non ha bisogno di un programma, come succede invece nel computer. Il computer sembra avere tante cose, ma in realtà è tutto progettato, si basa tutto sui programmi. Lo specchio non ha bisogno di nessun programma. Vuol dire che lo specchio ha la capacità infinita del manifestare riflessi, ma la capacità vera qual è? Il riflesso non è la sua condizione reale. Per noi è uguale: ogni individuo ha tante capacità quanto uno specchio. Per noi si tratta prima di tutto di scoprire questa condizione: siamo definitivamente liberi, non dipendiamo da nulla. Per questo occorre comprendere come scoprire la nostra natura. Per scoprire la capacità dello specchio ci vuole il riflesso. E così per noi occorre anche il giudizio, il ragionamento, i pensieri, e attraverso questi riflessi si deve scoprire nostra condizione. Un maestro insegna questo agli studenti, applicando anche molta esperienza. Allora quella persona si trova definitivamente libera e questo si chiama “realizzazione”. D. Nella cultura occidentale c’è grande distanza tra le singole discipline e tra la cultura umanistica e quella scientifica. Nel suo lavoro, come nella cultura tibetana, c’è invece una grande relazione tra le varie discipline. Come fa a mettere insieme nel suo insegnamento campi così diversi, la medicina, l’astrologia, la psicologia, ecc.? R. Una persona quando ha sete cerca di bere, quando ha fame vuole mangiare, se sta male prende una medicina. Questo è un esempio: nelle circostanze noi abbiamo tante cose a disposizione, il praticante impara ad agire nella circostanza, così com’è. Noi lavoriamo così. Ecco perché dico sempre che c’è una canzone italiana che mi piace molto: “La vita l’è bela, l’è bela, basta avere un ombrello” questa è la verità, è questo che è veramente necessario, invece di inventare o preoccuparsi delle tante cose inutili. D. Sempre a proposito dei modi di dire, lei ha fatto anche un Piccolo canto del fai come ti pare. (Namkhai Norbu ride di gusto). Che cosa c’è dietro questo “fai come ti pare”? R. Cerca di essere consapevole delle circostanze. Quello che io insegno è che una delle cose più importanti nella vita di qualsiasi persona è essere presenti, non distratti. Quando sei presente, cerca di capire come sono le situazioni e le circostanze: se si lavora con le circostanze, se si è presenti, allora si scopre facilmente che se si è agitati non va bene, allora sai che ti devi rilassare. Fai così ogni volta che è necessario e finalmente la vita si può godere. D. L’ultima domanda riguarda la salvaguardia della cultura tibetana. Tutta la situazione politica degli ultimi decenni porta al rischio di distruzione di questa cultura. Secondo lei che prospettive ci sono perché questa cultura possa continuare a vivere e che rapporti ci sono tra Cina e Tibet? R. La cultura tibetana ha elementi molto utili anche per altri paesi. Per questo penso che queste cose si debbano in qualche modo sviluppare nelle altre culture e altri paesi. Ma soprattutto deve farlo la Cina, dove il governo centrale presenta il Tibet come parte della Cina. La Cina deve essere molto consapevole che non deve perdere una cultura ricca e profonda come quella del Tibet. Altrimenti un giorno si dirà: “c’era una volta questo Paese, gli abitanti si chiamavano tibetani e adesso si trova nel museo”. … non è molto carino per i cinesi, che hanno una grande responsabilità. Noi tibetani, come me e come molti altri che conoscono la cultura tibetana, contribuiamo facendo del nostro meglio per farla conoscere nel mondo occidentale e salvaguardarla. Per questo motivo abbiamo creato l’associazione Asia, che costruisce ospedali e scuole in Tibet. Per far sì che i giovani parlino e possano studiare il tibetano abbiamo fondato l’Istituto Shang Shung che fa corsi di lingua, di medicina, astrologia, organizza traduzioni. Stiamo cercando di fare del nostro meglio perché la cultura tibetana non finisca nel museo. [Artling special: Mauro Nobilini] e-mail: nobilini@yahoo.it
Dzogchen e Zen, Shang Shung Edizioni, 2003
Corso video di yoga tibetano. Video, Red Edizioni, 2001
La grande guarigione. Insegnamenti di medicina tibetana, Ubaldini, 2001
La suprema sorgente. Kunjied Gyalpo: il tantra fondamentale dello Dzogchen, Ubaldini, 1997
Drung, Deu e Bön - Shang-Shung Edizioni, 1996
Lo yoga del sogno e la pratica della luce naturale, Ubaldini, 1993
Il libro tibetano dei morti, Newton Compton, 1991
Il ciclo del giorno e della notte, Shang Shung Edizioni, 1990
Un'introduzione allo Dzog-Chen, Shang Shung Edizioni, 1988
Lo specchio, Shang Shung Edizioni, 1983
Introduzione all'insegnamento Rdzogs-chen , Shang-Shung Edizioni, 1988
Nascere e vivere, Shang Shung Edizioni, 1987
Il cristallo e la via della luce. Sutra, tantra e dzog-chen, Ubaldini, 1987
La collana di zi - Storia e cultura del Tibet, Shang Shung Edizioni, 1997
Dzog-chen, lo stato di autoperfezione, Ubaldini, 1986
Dzogchen: The Self-Perfected State, Snow Lion, 1990
The Supreme Source: The Fundamental Tantra of the Dzogchen Semde, Snow Lion, 1999
The Crystal and the Way of Light: Sutra, Tantra and Dzogchen, Snow Lion, 1999
The Cycle of Day and Night: An Essential Tibetan Text on the Practice of Dzogchen, Station Hill Press, 2000
The Mirror: Advice on the Presence of Awareness, Station Hill, 1996
Drung, deu, and Bön : narrations, symbolic languages, and the Bön traditions in ancient Tibet, Library of Tibetan Works & Archives, Dharamsala, 1997
Dzogchen Teachings, Snow Lion, 2006
Dream Yoga and the Practice of Natural Light, Snow Lion, 2002
Self-Liberation: Through Seeing with Naked Awareness, Snow Lion, 2000
DzogChen and Zen , Blue Dolphin, 2004
Wheel of Contemplation, Paperback, 1985
Yantra Yoga: The Tibetan Yoga of Movement, Snow Lion, 2003
Journey Among the Tibetan Nomads, Library of Tibetan Works & Archives, Dharamsala, 1997
Necklace of Gzi: A Cultural History of Tibet, Paperback, 1984
pubblicato il 1 novembre 2005 su RAI News www.rainews24.it -estratto dal video:
Namkhai Norbu: agire e vivere nelle circostanze
di Luciano Minerva
Attraverso la mia pratica io ho sviluppato la capacità di avere sogni consapevoli: questo significa comprendere che si sta sognando, pur non essendo svegli. In questo caso se uno vuole sognare cose importanti, è in grado di farlo. Questo non vuol dire che ci si costruisce i propri sogni, ma il sogno si manifesta secondo la circostanze dell’individuo. E io ho avuto questo tipo di esperienza.
Qualcuno ad esempio mi ha chiesto: dammi un nome del dharma, pensando che chi segue la strada del dharma, chi segue un insegnamento buddista, deve avere un nome diverso. Io gli dico: “Tu non ce l’hai un nome? “ “Sì, ce l’ho un nome”. “Bene, allora quello è il nome del dharma”. Nell’insegnamento della tradizione buddista, e in particolare nella tradizione dzog chen occorre integrare le conoscenze nelle condizioni reali.
ARTLING
pitture ad olio
di Mauro Nobilini