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Cattedrali e Dame
Mostra di Bruno Di Maio e Pierclaudio Paneraj
Circolo Culturale "Il Fitto di Cecina"
Corso Matteotti 101, retro
dal 26 Luglio al 10 di Agosto
dalle ore 17.00 alle 19.00 . Sabato e Domenica dalle 17.00 alle 24.00
Dal 26 Luglio al 10 di Agosto si inaugura a Cecina (Livorno) la mostra di
Bruno Di Maio e Pierclaudio Paneraj. Amici nella vita e artisti con spiriti
assonanti che hanno voluto unirsi in una mostra che esplora temi
apparentemente dissonanti. Cosa abbiano in comune le Cattedrali Di Paneraj e
le "Dame" di Di Maio pare, a prima vista, misterioso. Si direbbe banalmente,
il sacro ed il profano, uniti in un improbabile connubbio. Sicuramente non
vi è alcun intento irriverente in questo voler unire temi così distanti tra
loro. Conosciamo le figure femminili di Di Maio, mai volgari e mai
rappresentate, come d'uso oggi, quali ce le mostrano i milioni di irritanti
e offensive immagini sfrontatamnete superflue che ogni giorno ci vengono
proposte con ogni mezzo dai media. I nudi di Di Maio mi paiono un'omaggio
tra i più sinceri e delicati all'universo femminile, dove i soggetti, pur
senza veli e colti nell'intimità, mostrano se stessi senza mai indulgere
nell'esibizione e nell'ammiccamento. Si direbbe che la Donna viva
incontaminata in un suo universo assolutamente lontano dal nostro a dispetto
del realismo esecutivo. Una Donna del tutto ideale splendida nella sua
"sacralità". Forse questo mi sembra il punto di contatto con le Cattedrali
di Panerai, una sacralità dove il colore ed il sorriso illuminano il mistero
del loro contenuto. Le sue sculture sono bifronti, quasi a significare la
dualità della natura umana e dei significati che sempre ci vediamo portati a
cercare. Quando sembra di averne individuato uno, subito, a veder le cose a
tutto tondo ne scopriamo un'altro, a volte inquietante, a volte
rassicurante.
BRUNO DI MAIO
"..Ed ecco uno dei più bravi nuovi figurativi italiani, facile, irritante,
difficile, rassicurante, da fare invidia a tutti i suoi colleghi più
affermati e più sostenuti....Di Maio gioca, sogna, inventa effetti speciali
concorrendo con Carlo Rambaldi. Non la storia, non la citazione di maestri
antichi lo condizionano ma una fantascienza onirica dove possono apparire
creature mostruose alla Bosch, perché risulti sorprendente la sua abilità,
in una vertiginosa concorrenza con la realtà, per il trionfo dell'illusione.."
Vittorio Sgarbi
Bruno Di Maio è nato a Tripoli (Libia), da genitori Italiani, vive e lavora
da molti anni in Toscana. Disegnatore e pittore eccellente, lavora
prevalentemente per una committenza internazionale
Bruno Di Maio
L’artista propone costantemente, nei suoi dipinti, questo elemento
affascinante che ha delle forti valenze simboliche.
La spirale, base della sua struttura, è stata in molte culture
e fin dall’antichità considerata simbolo di perfezione.
Fin dalla preistoria questa forma colpì l’immaginazione
degli uomini, che la osservarono probabilmente nei cerchi concentrici
e nei gorghi che si formano nell’acqua, evocando uno “sprofondare”
nelle acque dell’aldilà, il che spiegherebbe perché
tali segni spiraliformi appaiano in forma di graffiti (petroglifi)
sui grandi blocchi di pietra che in epoca preistorica fungevano da
sepolcri. Ma per l’artista la spirale rappresenta soprattutto
l’idea di relatività e di inganno della nostra percezione
relativa. Se osserviamo la spirale dall’esterno verso l’interno
ci dà l’impressione che finisca al centro, proprio come
quella di una chiocciola. Se la osserviamo dall’interno verso
l’esterno sembra che prosegua all’infinito. Sappiamo però
che la spirale, per sua definizione, è infinita nei due sensi.
Ma essa rappresenta anche e soprattutto la dualità e l’ambiguità
della natura umana e del cosmo: la chiocciola è un animale
ermafrodita, maschio e femmina al tempo stesso. La presenza contemporanea
di due nature opposte e complementari in uno stesso essere. L’Artista
la rappresenta spesso di cristallo trasparente, quasi a sottolineare
la fragilità estrema dell’idea di perfezione che si cela
dietro la bellezza della forma.
Il bene e il male, il chiaro e lo scuro, lo Yin e lo Yang, in quell’equilibrio
precario e perfetto che è il motore della vita.
Lo spettacolo dipinto
Bruno Di Maio è un pittore virtuoso, cioè ricco di sapienza
rappresentativa, e gioca volentieri con il pennello padroneggiando
il mestiere al punto che lo potresti immaginare mentre realizza il
suo spettacolo dipinto ad occhi chiusi, come un rabdomante.
I suoi quadri sono fantasie a volte spericolate, a volte perdutamente
misurate sulla attendibilità dei dati percettivi, che il pennello
riconduce alle stesure e alle rifiniture più dettagliate, con
effetti di consapevole adesione sentimentale alla immagine.
Non so se sia una indicazione autobiografica, o la necessità
di rappresentare, come lo specchio di Narciso, una esauriente visione
di personali esperienze vissute: fatto sta che la pittura di Bruno
si qualifica in questa permanente tensione tra la facilità
dell’operare tecnico e il piacere di percorrere i sentieri della
infatuazione, della mobilità sentimentale, della avventura
esistenziale e fantastica. Così, per lui, la pittura non ha
la pretesa del programma poetico. Non sarà mai, per partito
preso, verista simbolista surrealista metafisico realista iperrealista
citazionista che dir si voglia.
Di Maio vuol essere prima di tutto sé stesso, quale lo conosciamo
nella sua veste di professionista dell’immagine dipinta, e al
tempo stesso uomo di sentimenti e di sincera commozione un galantuomo
d’altri tempi insomma, che vive la sua esperienza di artista
con integra semplicità di gesti e di comportamento. All’inganno
dell’occhio si conforma la sua favola di linee e di colori,
secondo una tradizione antica: e antico è in un certo senso
il suo procedere incurante di tutte le oscillazioni del gusto, come
se la pittura avesse una ricetta infallibile per guarire i malanni
del tempo e per oltrepassare le inevitabili mode.
E’ bello per questo motivo soffermarsi ad apprezzare l’evoluzione
narrativa di certe sue tele, popolate di persone viventi e di allegri
fantasmi evocati senza la complicità di un dizionario mitologico.
Vediamo ad esempio tre caravelle in cielo bigio, sopra una in certa
plaga dove si avvicendano personaggi e tempi di una azione simultanea,
un suonatore di fisarmonica, uno scultore e la sua modella, un angioletto
in bicicletta, due goyesche damigelle dai seni pronunciati come i
loro variopinti copricapi, e una ragazza in primo piano, un poco discinta,
seduta su di un panneggio che sembra quasi il telo dismesso di un
piccolo sipario. La descrizione sommaria di un dipinto ci consente
di riflettere un poco sul divagante immaginario che il pittore ci
presenta: sommatoria di piccole visioni, abbecedario onirico che non
aspira alla consapevolezza, ma tuttavia ha il potere straordinario
del racconto, dell’intrattenimento glorioso in un palcoscenico
di continuo belvedere.
In questo senso Di Maio scrive in pittura una permanente autobiografia,
sia che ritragga persone, o nature morte, o funamboliche e visionarie
teratologie. Come il monsieur Dudron di Giorgio De Chirico, il nostro
pittore trascrive sulla tela ogni esperienza di vita, attraverso sottilissimi
richiami e trame misteriose che possono pure sfuggire al senno del
pubblico, purché restino bene stampate nel risultato finale
del quadro come evocazione.
A Di Maio, come al Dudron-De Chirico, la biografia serve per spiegare
le ragioni che hanno suscitato l’espressione artistica. Egli
è un pittore che polemizza, che ragiona, che osserva la vita,
che vuole descrivere la sua arte. Per questo tutto diventa per lui
“occasione”: perfino una notte “brava” in
balìa di una signora “dalle chiome fiammeggianti”
può far risplendere meditazioni e osservazioni attraverso le
quali costruire un colore o disporre oggetti sulla tela.
E lo immaginiamo come monsieur Dudron, al termine delle peripezie
attraversate un po’ controvoglia, un po’ per curiosità
incontenibile, che alla fine “si sedette dietro al cavalletto,
si armò della tavolozza e dei pennelli e, riprendendo un quadro
abbozzato il giorno prima, si mise tranquillamente a dipingere”.
Dopo le avventure condite di sogni e di fantasia, Di Maio riprende
il suo colloquio col mestiere di pittore e costruisce la sua avventura
di artista.
Per questo, nulla è stato inutile, nemmeno il più insignificante
dettaglio di esperienza. C’è un fondo di superbia in
questa auspicata solitudine del pittore, che è tutta da ascrivere
a suo merito se con essa l’erario dell’ arte può
acquisire gemme ulteriori. Sentiamo, ancora, il nostro Dudron: …”Nella
nostra epoca, la storia dell’arte rimarrà famosa per
l’ignoranza di quelli che si occupano di pittura”.
Non capiscono che l’immagine non significa nulla, che l’unica
cosa che sottrae una pittura all’oblio è la sua “qualità.”
E’ questa definizione della “qualità” come
essenza della pittura a farmi apparentare Bruno Di Maio al piglio
“eroico” di Giorgio De Chirico nella sua battaglia contro
le pulsioni antiartistiche del modernismo ideologico.
E’ una avventura fantastica, d’accordo. Vissuta nell’isolamento,
e in forma di anacronistica reminiscenza di generi, tecniche, approcci
espressivi dimenticati. E pure, tutto questo modo di vedere, e di
fare, in nome della “qualità”, è una provocazione
fortemente contestativa del “culturale organizzato” dei
giorni nostri, quello che predica l’effimero, la caducità
dei mestieri, la stessa dissoluzione entropica dell’arte nel
comportamento e nel territorio sociale.
Come De Chirico, che si risolveva a scrutare con ironia il “demone”
presente in ogni cosa, Bruno Di Maio si affida al suo fare di mestiere,
e all’estro di una narrazione personale e fantasiosa, in polemica
diretta col mondo dei critici-intellettuali, quelli che predicano
la “nullità” della pittura, tanto quanto la “nullità”
dell’essere. Niente di più lontano potrebbe esserci,
nello spirito e nella inclinazione di Bruno Di Maio, che vuole trasformare
ogni acido corrosivo della esperienza esistenziale in contemplazione,
vuoi magica, vuoi serenamente sensuale, vuoi narrativamente malinconica.
Così i suoi personaggi stravaganti, le sue allegorie senza
apparente significato, le teporose figure femminili accarezzate da
una pasta colorata sapiente, tra il vivido e l’evanescente,
diventano una testimonianza costante di un interesse attivo che il
pittore ha per il mondo che lo circonda, e che egli attraversa come
un “muto ospite”, avido di visione, interprete medianico.
Bruno Di Maio, nella sua sincera offerta di spettacolo dipinto, non
mi pare abbia altra vocazione: egli è, puramente e semplicemente,
un impeccabile parodista sinceramente e onestamente appassionato della
“qualità” che riesce a conseguire nei risultati
della sua espressione. E al di là delle “furberie”
dei mestieranti, cosa altro mai deve essere, cosa altro mai è,
se non questo, un autentico pittore?
Testo di Duccio Trombadori